Chi ama le Timberland le tratta male

Timberland, chi le ama le tratta male. È con questo claim che a metà degli anni ’80 viene lanciata una campagna che, come spesso capita con la pubblicità, sarebbe poi rimasta nell’immaginario collettivo come una pietra miliare in minore. La lunga body-copy dell’annuncio si chiudeva con la frase «Le Timberland vecchie e sporche sono bellissime».
Il modello 3-Eye Lug Handsewn era nato non molti anni prima, nel 1978. Una scarpa con la tomaia Timberland classica ‘da barca’ con tre occhielli a cui però è abbinata la robusta suola a carrarmato in gomma tipica degli stivali del brand, gli altrettanto celebri 6 Inch Boots.


A renderla però un’icona del decennio è l’associazione con una delle più rilevanti sottoculture del periodo: i Paninari. Nel bene e nel male, amati e odiati, idolatrati o derisi e poi protagonisti di ritorni nostalgici, hanno incarnato lo spirito e le contraddizioni degli anni ’80.
«Fenomeno di costume» ed «espressione giovanile dell’ondata di riflusso e disimpegno» come dice Wikipedia, nato nella Milano da bere come da altro storico spot dell’Amaro Ramazzotti, ideato da Marco Mignani e divenuto definizione di un’epoca e di una città fatta di moda, soldi, edonismo e individualismo ma anche di sperimentazioni e spregiudicatezza libertaria nei campi delle arti, maggiori e minori, di cosmpolitismo, di clubbing e di design che elogiava la forma e la decorazione come necessità.

I paninari erano l’espressione giovanile di questo fermento, forse più economico che culturale, con la loro ossessione per l’America dei film, del liberismo che diventa affermazione del sé self-made, del denaro che non dorme mai e quindi, come conseguenza estetica, della moda come divisa, dell’abbigliamento come codice di appartenenza al mondo nuovo a cui l’Italia e in particolare Milano potevano finalmente avere accesso.

Giacche Moncler, felpe Best Company, cinture El Charro, calzini Burlington, sigarette Marlboro, moto Cagiva, panini Burghy nella storica sede di Piazza San Babila. E scarpe Timberland, con modelli diversi a seconda della stagione, ma con la versione 3-Eye Lug Handsewn come passepartout, data l’accoppiata tomaia-suola che la rende utilizzabile tutto l’anno.

C’era una sorta di inquietudine di classe, in un periodo in cui la cosiddetta «classe media» poteva finalmente concedersi lussi di importazione che al tempo, quando il mercato ancora non era a tutti gli effetti globale, apparivano esotici ed esclusivi.

Ma c’era anche una gioia disimpegnata e sincera, che rendeva il tutto lontano dalle coeve paranoie d’oltreoceano raccontate dagli imperdibili romanzi di Bret Easton Ellis.

Dai paninari rimasero folgorati anche Neil Tennant e Chris Lowe, i Pet Shop Boys, che leggendo le contraddizioni del fenomeno durante un tour promozionale per il loro primo disco, nel 1986 pubblicarono per il mercato italiano il singolo omonimo, il cui testo diceva «Passion and love and sex and money / Violence, religion, injustice and death» e poi «Armani, Armani, ah-ah-Armani» a rimarcare il potere magico dei brand che spopolavano in quel periodo in cui la moda era onnipresente e aveva un valore nella vita delle persone inimmaginabile se paragonato alle infinite e variegate possibilità di oggi.


Poi con gli anni ’90 il vento cambiò, e i paninari scomparirono insieme agli eccessi degli anni ’80. La moda iniziò a diventare tante cose diverse, tra il minimalismo dei belgi o dei giapponesi, le speculazioni intellettuali di Miuccia Prada, le incursioni dello sportswear e i mille rivoli creativi che l’hanno resa l’arcipelago sfaccettato che è ora.

Ma le Timberland sono restate, e oggi, anche sul loro sito, quei modelli riportano la definizione «icon», con la produzione che è sempre continuata, ininterrotta, incurante delle mode.

E con un ampio target di appassionati, che vanno dai preppy metropolitani per bene che restano però affascinati dai vecchi video dei Duran Duran, alla versione indie, rilassata e noncurante che le prevede il più possibile distrutte con jeans slavati e t-shirt no logo.

Non solo Timberland, le migliori scarpe da barca per chi ancora si sente un po’ Paninaro
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